VENETO – Quinta edizione di “1866: la grande truffa” di E. Beggiato

COPERTINA 1866 LA GRANDE TRUFFA-2019 bassa
E’ uscita in questi giorni la quinta edizione di “1866: la grande truffa” di Ettore Beggiato, pubblicata da Editrice Veneta di Vicenza.
Il volume incentrato sul plebiscito di annessione del Veneto all’Italia (21-22 ottobre 1866) è stato stampato la prima volta nel 1999 e, anche grazie alla significativa prefazione del compianto Sabino Acquaviva, suscitò fin da subito un notevole interesse.
Questa edizione, arricchita di nuovi documenti, è nobilitata dalla prestigiosa postfazione di Lorenzo Del Boca,  giornalista, saggista, storico, giĂ  presidente dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti dal 2001 al 2010:
 

“I 150 anni della cosiddetta unitĂ  d’Italia avrebbero voluto celebrarli in pompa magna: quelli che hanno portato all’annessione di Venezia meglio lasciarli passare sotto silenzio.

Non per caso né per distrazione.

A enfatizzare il tempo fra il 1861 e il 2011 erano stati, soprattutto, i “compagni” piĂą convinti. E, francamente, era sembrato paradossale. Avevano consumato gli anni della giovinezza e della maturitĂ  per inneggiare all’internazionalismo proletario e a sognare l’egemonia dell’Unione Sovietica. Il nazionalismo andava bandito dal vocabolario e avversato sul piano culturale come una variazione – nemmeno troppo sofisticata – del fascismo. Quale tricolore? Si poteva fare benissimo a meno del bianco e del verde perchĂ© quello che contava per davvero era il rosso.

Con una conversione a 180 gradi, anche i critici più convinti di patria e terminologie affini si sono scoperti partigiani dello stato unitario, frutto delle guerre d’indipendenza nazionale.

Avrebbero voluto trascinarsi dietro le decine di milioni di italiani per glorificare in modo solenne l’anniversario. Mezzo anniversario, per la verità. Perché volevano celebrare l’Italia unita che, nel 1861, era solo mezza. Mancavano Lazio, Veneto, Friuli, Trentino, un pezzo di Lombardia (perché Mantova era ancora austro-ungarica). Dunque: senza Venezia e senza Roma.

Ci hanno messo anche un bel po’ di quattrini per convegni, studi e ricerche. Peccato che tutto l’armamentario accademico non ha approfondito nulla e, gettando al vento un’opportunità probabilmente unica, ha rinunciato a fare chiarezza su quella quindicina d’anni che hanno generato l’Italia. La retorica l’ha fatta da padrona, senza un briciolo di critica e di auto-critica. La narrazione è risultata una melassa indigeribile di esagerazioni buoniste e di autentici luoghi comuni.

I cittadini hanno guardato distrattamente tutto questo sforzarsi per rendere solenne l’anniversario. Torino, ricordo dell’antica capitale, si è abbastanza imbandierata ma le altre città capoluogo di regione sono rimaste abbastanza freddine.

Figurarsi che cosa sarebbe stata una celebrazione analoga per i 150 anni di Venezia italiana. Non ci hanno nemmeno provato.

Cuore e anima delle terre del Piave e dell’Adige hanno un carattere autenticamente autonomo quando non indipendentista. E, se proprio occorre scegliere, meglio Vienna di Roma, più mitteleuropei che italiani.

“Dime càn ma non dirme taliàn”.

Significativo che, ancora oggi, sui muri, non è raro trovare scritte del tipo: “nonostante 150 anni, ancora veneti”.

Può meravigliarsi solo chi non conosce la storia o la vuole storpiare per compiacere i cantori del regime.

Ettore Beggiato, quel 1866, anno dell’annessione, lo ha indagato, vivisezionandolo a puntino, per ricavare contesti, statistiche, riferimenti e documentazioni. Il quadro che ne deriva spiega e giustifica l’atteggiamento dei veneti di oggi che, magari, non conoscono la storia nel dettaglio ma che, pur inconsapevolmente, “sentono” che non gliel’hanno raccontata giusta.

I “serenissimi” hanno alle spalle mille anni di autonomia. Come possono accettare il declassamento a regione (periferica) di uno stato?

La cultura veneta ha attraversato le epoche, segnalandosi per la raffinatezza dei suoi protagonisti. Ha amministrato le sue terre con un governo di Dogi e un Senato che, considerati i tempi, poteva passare perfino per democratico. E, sul piano economico, il commercio ha assicurato una prosperità che, talora, poteva assomigliare persino all’opulenza.

Con il Risorgimento tutta quella gente si è ritrovata cittadina di serie B, poco considerata e persino un poco maltrattata. Dovrebbero anche ringraziare Roma e l’Italia?

Da terra ricca che era si è ritrovata a recitare il ruolo della vacca da mungere.

Proprio in quei mesi del 1866, Ruggero Bonghi lo ha scritto senza mezzi termini al senatore Giuseppe Saracco. “Iddio che ama gli spensierati ci dava Venezia il cui bilancio, presentando un’entrata di circa 79 milioni e un’uscita di circa 54, ci dava un avanzo di circa 25 milioni”. Una boccata d’ossigeno per le casse strampalate del regno d’Italia che ci ha preso gusto e, a cominciare da allora, ha preso a caricare di tasse Venezia e Veneto per coprire uno dei tanti suoi buchi, sempre e inevitabilmente, più mostruosi.

Che cosa ci sarebbe stato da festeggiare nel 2016, a 150 anni dal 1866?

Che cosa avrebbero dovuto inventarsi i cantori dell’unità nazionale per nascondere i brogli, le truffe, le intimidazioni e gli espropri che hanno accompagnato il passaggio di Venezia e Veneto dall’Austria (“felix”) alla Roma (“ladrona”)?

Ettore Beggiato è un innamorato della sua terra alla quale dedica appunti, ricerche e approfondimenti che, con rigore accademico, contribuiscono a creare i presupposti di un’altra storia e di una verità differente. Per questo, è apprezzabile il suo lavoro sul 1866. Perché spiega l’Italia di ieri e consente di comprendere l’Italia di oggi.

In quei mesi i cittadini hanno perso il 45 per cento della loro ricchezza. I ragazzi non hanno più potuto andare a scuola perché ai professori, accusati di essere “austriacanti”, avevano tolto la licenza all’insegnamento. Generazioni di veneti sono stati condannati a “ruscare” fin da bambini per rimediare l’indispensabile per vivere. E, spesso, le fatiche fino alle soglie della morte non erano nemmeno sufficienti.

“Poca Italia – i bastiema – andemo via!”

Proprio allora, sono state create le condizioni per una diaspora senza precedenti di veneti che hanno popolato terra incolte di Argentina e Brasile per trasformarle in campi di grano e vigneti. In qualche caso, l’emigrazione ha toccato il 70 per cento della popolazione. Non di rado, s’incontrano più veneti nei villaggi d’America da loro fondati che quelli dei paesi dai quali sono partiti.

Certo, poco da ricordare e niente da celebrare per lo stato nazionale. Ma almeno a casa nostra, raccontiamocela giusta.

“Coss’ela sta Italia, sta patria, compare… coss’ele ste cose che ghemo da amare…?”

MEDYA CINAR, LIBERA ALLA FINE – di Gianni Sartori

cinar

Il 25 marzo un’altra prigioniera politica, Medya Cinar, ha messo in atto l’estrema protesta, il suicidio, contro l’isolamento imposto a Ocalan e contro la politica repressiva di Ankara.

Mentre oltre settemila prigionieri curdi sono in sciopero della fame (e il governo rimane del tutto impassibile alle richieste), giĂ  quattro di loro – nell’arco di un sola settimana – hanno radicalizzato la protesta ponendo fine volontariamente alla vita stessa.

Oltre a Medya Cinar, Zulkuf Gezen (17 marzo, prigione di Tekirdag), Ayten Beçet (22 marzo, prigione di Gebze), Zehra Sağlam. (24 marzo, prigione di Oltu).

A questi bisogna poi aggiungere un militante – Ugur Sakar – che in febbraio si era immolato con il fuoco in Germania e che è deceduto per le gravi ustioni qualche giorno fa.

Pare inoltre che un altro curdo si sia voluto immolare, sempre con il fuoco, proprio il 25 durante una manifestazione.

Medya Cinar, 24 anni, era rinchiusa dal 2015 nel carcere di tipo E di Mardin.

Tornata a Nusaybin dopo essere rimasta ferita (mentre combatteva in Rojava con le YPG contro lo stato islamico), era stata arrestata durante un rastrellamento per imporre il coprifuoco. Sottoposta a tortura, come aveva denunciato, si trovava in attesa del processo. In questo momento, mentre scrivo (tarda serata del 25 marzo) il suo corpo è ancora nell’obitorio di Mardin e la polizia si rifiuta di restituirlo ai familiari.

La drammaticitĂ  della situazione è ormai ad un punto tale che il PKK, con un comunicato, ha richiesto con forza la sospensione di tali “atti individuali”. Atti che comunque rendono l’idea di quanto grave sia la situazione carceraria in Turchia e quella dei prigionieri politici in particolare.

Nel suo comunicato il PKK rende onore a coloro che hanno scelto di mettere fine alla loro vita, ma contemporaneamente chiede agli altri prigionieri di non proseguire con tali gesti definitivi e irreparabili.

Il presidente dell’Associazione per i Diritti dell’Uomo (IHD) –Ozturk Turkdogan- e il segretario generale della Fondazione turca per i diritti dell’Uomo (TIHV) – Metin Bakkalci – in una dichiarazione congiunta alla stampa (sia sulla questione degli scioperi della fame che su quella dell’isolamento) hanno dichiarato che “le persone che hanno posto fine alla loro vita in questi giorni per protestare contro l’isolamento di Abdullah Ocalan, detenuto nel carcere di Imrali, ci hanno lasciato con una profonda tristezza. Vogliamo ricordare che la vita è sacra. In quanto difensori dei diritti umani, noi difendiamo il diritto alla vita in ogni genere di condizione. Facciamo un appello affinchĂ© nessun altro ponga fine ai suoi giorni, in prigione o altrove”.

Pur consapevoli di quali siano le tensioni – sia politiche che psicologiche – a cui i detenuti vengono sottoposti, hanno voluto ribadire la loro contrarietĂ  a questo genere di azioni.

Arrivando a definirle “non accettabili” e sostenendo che “non devono essere utilizzate per ottenere la soppressione dell’isolamento”.

Una dichiarazione che – a mio avviso – lascia intravedere una possibile spaccatura tra diverse anime del movimento di liberazione curdo. Se vogliamo, tra quella piĂą radicale, rivoluzionaria e quella riformatrice, gradualista.

Ma il comunicato si sofferma anche sul diritto, al momento negato, dei familiari di “seppellire i loro cari secondo la loro religione, le loro usanze”. Mentre invece al momento vengono inumati nottetempo, quasi clandestinamente, dalla polizia. Un metodo definito “irrispettoso e illegale che impedisce ai familiari di vivere il processo del loro lutto”.

Del resto cosa aspettarsi da un regime che ormai – almeno nei confronti dei curdi – pare avviato all’istituzione di un autentico apartheid?

Gianni Sartori