CYMRU – di Gianni Sartori – (parte seconda)

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LA BATTAGLIA DI CRECY

Riprendiamo in mano il nostro Arco Lungo…
Con il tempo si rivelò utilissimo anche in campo aperto, nella guerra convenzionale. Si vide che poteva scagliare 5-6 dardi nello stesso tempo che una balestra impiegava per uno (e, almeno fino a 300 metri, quasi altrettanto letali grazie al fusto dell’arco di un metro e ottanta).
Per arrivare alla piena valorizzazione delle sue possibilità bisognerà però attendere gli eventi del 1346 con la battaglia di Crecy. La serie di circostanze che portarono a questo scontro non è molto dissimile da quella che determinerà, nel secolo successivo, Azincourt (e chi ha scritto che la Storia si ripete, un volta come tragedia e quella seguente come farsa, pensava evidentemente ad altro).
Osservo per inciso che, se non proprio nell’iconografia ufficiale, almeno nell’immaginario collettivo unionista, le vicende di “un pugno di uomini predestinati che si batte e vince contro un nemico preponderante” si confondono con quelle dei coloni protestanti cinti d’assedio dai “selvaggi” gaelici nella fortezza che si erano costruiti a Derry (dopo aver preventivamente raso al suolo la vecchia città dell’Ulster).
E sempre a proposito di Irlanda e “appropriazione indebita di simboli e prodotti della cultura materiale altrui” ricordo che il barone normanno Riccardo di Pembroke, prima trapiantato nel Galles e poi nominato re del Leister (dopo l’invasione dell’isola Smeralda del 1167-1169), si farà conoscere dagli irlandesi come Forte Arco. Come è noto questa prima, parziale invasione fornì una testa di ponte per quella definitiva del re d’Inghilterra Enrico II.
Molti anni più tardi ci fu un altro genere di armi (leggermente più sofisticate) che, con un percorso inverso a quello del barone invasore, dall’Irlanda sbarcarono nel Galles (nemesi storica?).
Alla fine degli anni sessanta una componente dell’IRA (quella che poi sarebbe stata chiamata “Official” – OIRA) ritenne di dover smontare le proprie strutture combattenti per privilegiare la lotta politica e ritentare (c’erano stati dei precedenti significativi) una riunificazione delle classi subalterne (“proletarie“ si può ancora dire?) in una prospettiva socialista e interconfessionale. Forse con una certa dose di ingenuità pensava di colmare ipso facto il baratro di diffidenza e reciproca incomprensione che Londra aveva astutamente scavato tra la comunità cattolica repubblicana e quella protestante unionista*. In pratica le armi vennero regalate (o comunque svendute a prezzi fallimentari) ad un movimento di liberazione gallese.** Quando poi le milizie protestanti di Shankill Road, incuranti della mano tesa dai repubblicani, attaccarono le aree “papiste” di Belfast (Andersonstown, le “Falls”…) incontrarono ben poca resistenza a causa della smobilitazione dei Volunteers. Solo qualche reduce delle antiche campagne dell’IRA e alcuni giovanissimi “estremisti” salirono sui tetti per difendere la gente (a schioppettate, s’intende). Le armi utilizzate nella circostanza erano poco più che residuati bellici ma così cominciava la leggenda dei Provos (IRA Provisional- PIRA).

Abbandoniamo ora i quartieri in fiamme di Belfast (e il contenzioso, ormai datato, tra OIRA e PIRA) per riapprodare in terra di Francia dove avevamo lasciato la spedizione di Edoardo III sbarcato nel 1339. Il suo agguerrito esercito era costituito in gran parte da mercenari, scarsamente interessati alle pretese inglesi sulla corona francese.
Astutamente l’esercito francese evitò lo scontro decisivo finché il re inglese, esauriti i fondi, non si trovò abbandonato dai suoi prezzolati combattenti. A quel punto Edoardo, costretto a dar battaglia in condizioni di inferiorità, dimostrò di aver ben appreso le lezioni impartite dagli irriducibili gallesi
al suo esercito. Appiedò i pochi cavalieri rimasti (proprio come accadrà ad Azincourt) inserendogli tra gli arcieri, sia come forma di “incoraggiamento” che di controllo.
I micidiali tiri degli Archi Lunghi provocarono circa 1500 morti tra la cavalleria francese (le perdite inglesi non furono più di un centinaio) e, cosa inedita all’epoca, gli arcieri non fuggirono di fronte alla carica dei cavalieri ma continuarono a scagliare dardi.
Si trattò di un cambiamento radicale rispetto alle “tradizioni” della fanteria medievale e dopo Crecy
“niente fu più come prima”. Non solo le cotte di maglia vennero sostituite dalle corazze, ma gli arroganti cavalieri (soprattutto i più spilorci, vista la vulnerabilità dei costosi cavalli) presero a combattere spesso a piedi, nonostante la cosa potesse apparire “declassante”.
Cari i miei lettori (quanti? Mezza dozzina? Meglio che niente nda): se questo disquisire sull’Arco Lungo e le due-tre battaglie che lo resero celebre dovesse apparirvi eccessivo e sproporzionato, ricordo che sono migliaia le pagine prodotte da storici e affini sull’argomento. Ma quasi tutte per celebrare l’innovazione introdotta nell’arte della guerra dall’Arco Lungo (e di riflesso nella società civile), considerato un “frutto della genialità tecnica e strategica degli inglesi”. Senza concedere un riconoscimento, per quanto tardivo, agli unici che potrebbero legittimamente rivendicarne il brevetto, i gallesi appunto.
E anche vero che i “Piccoli popoli” (gallesi, baschi, galleghi, bretoni, corsi, irlandesi, sardi…) minorizzati e oppressi dai potenti Stati-nazione non si sono mai particolarmente distinti per la loro volontà di dominio; combattenti valorosi quando si tratta di difendere la propria terra e la propria identità, non si sono scomodati più di tanto per andare a conquistare, colonizzare, sfruttare altri popoli e nazioni (sia in Europa che nel cosiddetto terzo Mondo).

Comunque sia l’esempio dell’Arco Lungo, inteso come prodotto della “cultura materiale” gallese espropriato dagli inglesi (per poi utilizzarlo su “scala industriale”), era propedeutico al tentativo, meno scontato, di dimostrare che la cultura dominante si è impadronita anche dell’immaginario tradizionale (o almeno ha tentato di farlo: manipolando, alterando e mistificando).

LA TESTA DEL GUERRIERO: PROPAGANDA, “RICICLAGGIO” O “INTOSSICAZIONE”?

Azzardo umilmente un’ipotesi: i gallesi potrebbero essere stati espropriati anche sul piano del patrimonio mitico collettivo, quello celtico originario.
Prendiamo un classico: “I Quattro Rami del Mabinogion”. Non mi aveva mai convinto la faccenda della testa di Bendigeidfran sepolta nei dintorni di Londra: Vistosi irreparabilmente in via di decesso l’eroe gallese ordinò ai suoi seguaci di decapitarlo. La testa, come da tradizione, rimase fresca, rosea e vitale. Inoltre conservò l’uso della parola e ordinò di venir tumulata sotto ad un misterioso “Monte Bianco” della campagna londinese, nei pressi dell’odierna capitale.*** Difficile stabilire dove finisca la trascrizione della leggenda originale e inizi l’interessata manipolazione.
Chi a Londra deteneva il potere sembra si sia ritrovata, bella e pronta per l’uso, una dimostrazione della sostanziale continuità tra dinastie (celtiche, sassoni, normanne…), garantita dalla permanenza del luogo fisico depositario del carisma regale-nazionale. Dove per Nazione si intende “Regno Unito” con l’Inghilterra egemone (“United we stand; divided we fall”).
L’epoca della stesura è quantomeno sospetta, dato che i “Quattro Rami” risalgono al sec. XIV (tra Crecy e Azincourt, vedi anche il curioso particolare della testa sepolta “con lo sguardo rivolto alla Francia”) e sono l’opera di bardi in servizio alle corti normanne insediate nel Galles.
E’ umanamente comprensibile che questi cortigiani, per compiacere i loro datori di lavoro e guadagnarsi un tozzo di pane, rivestissero con “panni cavallereschi” le imprese delle barbare divinità e dei grossolani eroi dei Celti. Ma temo si siano spinti anche oltre, fornendo mattoni alla costruzione ideologica dei dominanti (ossia all’ideologia dominante). Naturalmente non si può escludere a priori che anche nella versione originaria si parlasse proprio di Londra. Prima che i sassoni vi mettessero piede l’intera “Albione” era abitata dai Celti. Poi dovettero fuggire in Irlanda o In Bretagna (e per questo il bretone è ancora sostanzialmente comprensibile dai gallesi, e viceversa) o rifugiarsi nella roccaforte del Galles.
Ma comunque la cosa stride, “puzza” di manipolazione. Almeno la sorella Branwen, persona alquanto sfortunata, aveva avuto il buon gusto di farsi inumare nell’isola di Anglesey.
E poi, se proprio un monte doveva essere, il degno monumento funebre per il valoroso guerriero decollato (Bendigeidfran), andava benissimo anche il classico Snowdon. Non viene forse considerato il più plausibile tra i luoghi descritti come estrema dimora di Re Artù?****

Quanto a questo, è assai probabile che il ciclo originario di Artù derivi dalla sovrapposizione (legittima in quanto interna alla tradizione culturale celtica) tra le imprese di un capo guerriero celta del V o VI secolo d.C. che combatteva contro gli invasori e una primordiale divinità -Artor- il cui culto era diffuso anche in Gallia. I rifacimenti successivi (sia la Storia dei re di Britannia di Goffreddo di Monmouth che l’opera di Robert Wace) rappresentano un ulteriore, raffinato esempio di “contaminazione” del XII secolo e risentono pesantemente della necessità di legittimare una presunta continuità tra le dinastie autoctone e quelle degli invasori (prima sassoni poi normanni).

LA SPADA NELLA ROCCIA

La stessa vicenda della “Spada nella Roccia” deve aver subito una serie di interessate manipolazioni, al punto da venire abitualmente proiettata in un improbabile scenario medievale di maniera, sfondo ideale per ribadire che la monarchia veniva restaurata per volontà divina, onde ristabilire l’ordine interno e l’unità del Regno.
Sarebbe interessante stabilire se queste versioni “rivedute e corrette” della vicenda arturiana abbiano fornito (fin dal XIII sec.) un “modello operativo” a Edoardo I o ne rappresentino invece una velata trascrizione apologetica. Il re inglese in questione riuscì appunto a mettere ordine tra i suoi turbolenti vassalli, indispensabile premessa per riconquistare il Galles annettendolo con lo statuto di Rhuddalan (1284). Proprio dai conflitti tra baroni e Corona avevano tratto vantaggio i gallesi, tanto da conquistare un periodo di autentica indipendenza con Llewelyn I e Llewelyn II, due “epigoni” di Artù molto più autentici, plausibili e legittimi.
Non solo dell’inglese al 100% Edoardo, ma anche di quell’Enrico Tudor originario del Galles che divenne re d’Inghilterra nel 1485. *****
Anche ammesso che avesse qualche litro di sangue gallese in corpo NON fa ugualmente testo (così come non fanno testo un corso imperatore dei francesi e un sardo ministro dell’Interno o presidente della Repubblica italiana).
Quanto ai soidisant “Principi del Galles”, sono tali, ovviamente, solo pro-forma.
Sembra invece siano, purtroppo, proprietari dell’intera Cornovaglia (quasi, diciamo), la pittoresca contrada celtica denominata fino al IX secolo “Galles occidentale”.

RELIGIONE OPPIO DEI POPOLI? CERTO, MA ANCHE CON QUALCHE EFFETTO COLLATERALE POSITIVO (TALVOLTA)

Un accenno poi bisogna farlo al ruolo fondamentale che ebbe la Riforma protestante per la conservazione del Cymraeg, la lingua nazionale gallese. Nel 1580 (altre fonti riportano il 1588) il vescovo Morgan tradusse e fece pubblicare la Bibbia in gallese, un fatto che risulterà di importanza capitale per la sua stessa sopravvivenza e per la produzione di una vera e propria lingua letteraria unificata (fortemente influenzata dall’ambiente puritano). Non mi pare pedanteria rilevare che nello stesso periodo (tra il 1570 e il 1590) i conflitti religiosi tra cattolici e protestanti in Iparralde (Euskadi Nord, sotto amministrazione francese) favorirono lo sviluppo di una notevole letteratura cristiana in euskara.

E oggi? Intanto, soprattutto nel corso degli anni ottanta del secolo scorso, in Galles sono arrivati i giapponesi (Nissan, ma non solo): a comprare terreni, investire capitali e (se dovessimo dar credito ai prezzolati uffici-stampa) “portare benessere alla vallate sottosviluppate”. Una modernizzazione neocoloniale (o un anticipo di globalizzazione) che ben presto ha cominciato a svelare l’altra faccia del “progresso”. Per esempio con la chiusura di molte miniere (come a Marthyr Vale e a Oakdale) e conseguente disoccupazione. Ma con questo siamo ormai negli anni della stramaledetta Lady di Ferro (che il diavolo se la goda, ora!) e quindi per ora mi fermo qui.

Gianni Sartori

*nota: su questo contenzioso (una lite in famiglia, per quanto aspra) le destre fasciste italiane, vecchie e nuove, ci marciano da anni. A sentir loro si sarebbe trattato di una divisione tra “marxisti” e nazionalisti. Effettivamente negli Official la componente marxista era ben presente (come in tutto il movimento repubblicano, almeno da James Connolly), ma si trattava in realtà di riformisti (“revisionisti”?) che approdarono prima all’eurocomunismo e poi alla socialdemocrazia. La parte più coerentemente rivoluzionaria e antimperialista uscì dagli Official per fondare l’INLA (v. Seamus Costelo, in seguito eliminato sembra proprio dagli Official. Nel 1972 aveva partecipato ad un convegno internazionale organizzato a Firenze da Potere Operaio). Quanto ai Provisional, il loro riferimento erano le lotte di liberazione delle colonie portoghesi, l’Algeria, Cuba, il Vietnam…in sostanza una lotta di sinistra e antimperialista (come per i baschi dell’ETA) con la prospettiva della liberazione nazionale e del socialismo.
Stavo ora consultando un vecchio opuscolo del Movimento repubblicano, quello derivato dai Provisional (“Notes for revolutionaries” del 1982) in cui sono riportati i pensieri di vari personaggi a cui far riferimento. Sono tutti di sinistra, molti comunisti: Patrice Lumumba, Alexandra Kollontai, Samora Machel, Oliver Tambo, Lenin, Mao Tse-tung, Antonio Gramsci, George Jackson, Vo Nguyen Giap, Che Guevara, Fidel Castro, Carlos Marighela, Rafic Khouri, Kwame Nkrumah, John Reed, Trotsky, Dolores Ibarruri…
Perfino una voce anarchica (una sola, peccato), quella di Emma Goldman. Dimenticavo. Ci sono anche, giustamente, Tashunka Witko (Crazy Horse) e Sitting Bull che non erano comunisti o anarchici ma semplicemente già “oltre” e “altrove”. Questi erano i riferimenti politici di combattenti come Bobby Sands e Patsy O’Hara.
E quindi ribadisco: ”fascisti, giù le zampe dall’Irlanda”.

** Naturalmente la lotta per l’autodeterminazione del popolo gallese non ha mai conosciuto l’asprezza di quella irlandese o basca. Ci fu comunque un episodio di forte insubordinazione negli anni trenta del secolo scorso. Nel 1935 il governo inglese decise di costruire una scuola militare per la RAF a Penyberth (una base, sostanzialmente) provocando le proteste della popolazione e manifestazioni di massa.
Vedendo che comunque i lavori proseguivano, tre quarantenni ben inseriti nella loro comunità (Lewis Valentine, Saunders Lewis e D.J. Williams: il primo un pastore battista, gli altri due insegnanti e scrittori) decisero di passare all’azione diretta. L’8 settembre 1936 incendiarono, completamente, la “Scuola di Bombardamento Aereo” di Penyberth. Il clamoroso gesto passò alla storia, quella gallese s’intende, come Tan y Llyn (“Fuoco di Llyn”, dal nome della penisola di Penllyn dove sorge Penyberth).
Uno dei tre sabotatori, Saunders Lewis, era tra i fondatori del Plaid Cymru (nel 1925).

***a riportare il mito celtico delle teste tagliate parlanti in epoca moderna ci ha pensato l’irlandese Pat O’Shea con “The Hounds of the Morrigan”.

****Altre versioni danno per certa la collina di Glastonbury, nel Somerset, appena oltre i confini del Galles occidentale, in prossimità della Cornovaglia. La variante “Etna” mi sembra alquanto fantasiosa e apocrifa. Almeno nel caso di Artù, quindi, la tradizione popolare gallese si è riappropriata dell’identità -celtica- di un suo eroe nazionale (per quanto mitico, ma con qualche fondamento storico: avrebbe combattuto contro i sassoni) ponendolo a estrema dimora nel suolo che gli spetta. Stesso destino, più recentemente, per la Tavola rotonda. E’ sempre più diffusa (a livello di immaginario collettivo, chiaro) la convinzione che il glorioso manufatto si trovi sepolto sotto qualche tumulo gallese (magari in un sidh?). Quanto a quella presunta, esposta a Winchester, neanche la propaganda filo-inglese più smaccata riesce più a nascondere che trattasi di una imitazione risalente al medioevo.

***** Avrei volentieri fatto a meno di questa nota (dolente). Ritengo tuttavia doveroso ricordare che tra gli antenati dell’Enrico Tudor, una sfilza di gallesi collaborazionisti, ci fosse anche quell’Owen, prima cortigiano di Enrico V e poi convivente della regina Caterina (rimasta vedova non del tutto inconsolabile). Owen, inoltre, si trovava anche ad Azincourt, pare come scudiere. E’ notorio che fu proprio un suo nipote (figlio di uno dei tre avuti da Caterina con Owen) a reclamare con successo il trono e a regnare come Enrico VII (o almeno così credo, se non mi sono perso qualche puntata di questa versione gallese di “Radici”).

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